mercoledì 24 giugno 2020

Due film di argomento yiddish


Vorrei parlarvi di due film di argomento yiddish: “Der Dybbuk” e “Yentl”. Il primo è una storia d’amore tra due uomini sotto mentite spoglie, il secondo mette in discussione i ruoli di genere nella società ebraico-polacca ottocentesca. Sono film godibilissimi che hanno fatto la storia del cinema ebraico, ma conoscere alcuni dettagli della dottrina cabalistica della reincarnazione aiuta a capirli.
Der Dybbuk” fu realizzato nel 1937 in Polonia, ed è prezioso anche per la colonna sonora, cantata da Gershon Sirota (1874-1943), un famoso cantore morto nell’Olocausto, e di cui si continuano a comprare i dischi e scaricare le incisioni. Il film si può scaricare da https://www.youtube.com/watch?v=tjy7O9sA1TQ, in una versione con il parlato in yiddish ed i sottotitoli in inglese. 
film di argomento yiddish
La fabula sembra molto semplice: due grandi amici, Nisan e Sendler, si promettono di maritare i loro rispettivi figli tra loro, quando li avranno – però Nisan muore in un naufragio dopo aver concepito un figlio di nome Khanan, ma prima di aver avvertito Sendler, il quale ha una figlia di nome Leah, ma scorda la promessa e, diventato un ricco mercante, cerca per la figlia il marito più ricco possibile.
Khanan, ignaro della promessa, diventa uno studioso non solo della Torah ma anche della Qabbalah, di cui vuole imparare a maneggiare i poteri oscuri, e vagando per la Zona di Residenza russa (da cui gli ebrei non potevano uscire senza un permesso speciale), finisce nello “shtetl = villaggio” di Sendler, dove incontra Leah. Se ne innamora, fors’anche ricambiato, ma il suo amore impossibile lo porta alla morte.
La sua anima non si rassegna e diventa un “dibbuk” che entra nel corpo di Leah, possedendola (si dovrebbe dire “aderisce” a lei, in quanto il verbo “dibbeq”, da cui la parola “dibbuk”, vuol dire “aderire”; dal medesimo verbo deriva la parola “devequt”, con un significato molto più positivo, in quanto rappresenta l’“unione mistica” con Dio), ed impedendole di convolare a nozze con il suo sposo (scelto dal padre)...

Raffaele Yona Ladu


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lunedì 15 giugno 2020

Non è un Paese per genderqueer

Quarto anno di università per Ale, in una grande città del Nord; nessun amico.
Allo studentato dove risiedeva, gli inquilini erano stati divisi in maschi e femmine e si sentiva estraneo ai discorsi delle compagne di corridoio. Depilazioni, epilazioni, ricostruzione delle unghie col gel, tacchi 9, 10 e 12, e trucco tatuato semipermanente

non è un paese per genderqueer

Anche all’università, l’ambiente non era tanto diverso. Si aggiungeva una malcelata presunta superiorità da parte degli studenti indigeni, provenienti da ricche famiglie di città, figli d’arte, cresciuti a pane, Gucci e Louis Vuitton.
Non tornava a casa da molto tempo: preferiva percorrere infinite vie deserte, senza lo guardo dei passanti, in un’anonima città grigia, piuttosto che fare il protagonista di sgradevoli cene con copioni già scritti, a casa di zie meridionali invadenti e ingombranti.
Qualcuno (i suoi cugini invidiosi, sposatisi a vent’anni) diceva che Ale, al nord, si nascondesse. Quello che non sapevano è che Ale, lì ,aveva potuto essere chi realmente era ed era nella sua provinciale cittadina meridionale che doveva nascondersi.
Ale non aveva voglia di recitare, di dare spiegazioni, di riceve domande stupide e binarie come “Quando ti sposi?“, “Hai trovato un fidanzato?“, “Come mai hai tagliato i capelli? Non preoccuparti…così sei ancora più femminile, tranquilla, cara!“.
Ale, a Milano, si tagliava i capelli da solo. Era bastato un piccolo investimento al negozio CapelloPoint: un paio di forbici e un pettine scuola, e una clipper tagliacapelli con varie regolazioni. Bastava separare la parte corta, sotto e dietro, da quella appena lunga, di sopra, e, col supporto di un gioco di specchi che permetteva di vedere dietro e sui lati,  finalmente quintali di riccioli invidiati da zie e cugine zitelle avevano lasciato il posto ad un’acconciatura più adeguata.
Ale spariva sui vagoni delle metropolitane che percorreva su e giù per muoversi in città. Bastava un fasciacollo tenuto su alto e un occhio coperto interamente da un ciuffo emo ad allontanare lo sguardo delle curiose e dei curiosi. Lo sguardo era proteso verso chi era più bizzarro e appariscente: i glamster di periferia, barboni, mendicanti, obese, e travestiti...


Nathan


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lunedì 8 giugno 2020

Una riflessione intersezionale


Ultimamente si sente spesso parlare di “intersezionalità”, soprattutto in riferimento a un certo filone di femminismo (il femminismo intersezionale, appunto). Peccato che, nella maggior parte dei casi, le parole “intersezionale” e “intersezionalità” vengano usate a sproposito per indicare coloro che si interessano a più cause, o che sono semplicemente più inclusivi di altri. Troviamo così attivisti che si ritengono intersezionali perché si occupano sia dei diritti delle persone lgbtqia che, per esempio, della violenza sulle donne. O troviamo femministe che si sentono intersezionali perché includono, nelle loro rivendicazioni, anche le donne transgender e non solo quelle cisgender (cosa che dovrebbe essere ormai scontata, ma che, purtroppo, ancora genera polemiche). 
intersezionalità
L’intersezionalità è tutt’altro. Non è inclusione e non è avere interessi politici multipli. L’intersezionalità è un approccio alle tematiche (quali che siano) che prende in esame tutti gli aspetti e tutte le interconnessioni con altri temi e col contesto sociale, economico, storico, culturale. Un approccio di cui troviamo un esempio mirabile nel saggio “Donne, razza e classe” di Angela Davis:

Il libro di Davis ci invita, piuttosto, ad abbandonare il “provincialismo” di presupposti e analisi basati su un soggetto “donna” presuntamene omogeneo, emergente da una storia di oppressione comune e condivisa. Ci invita dunque ad analizzare e tenere in conto come le identità di genere non siano mai neutre dal punto di vista razziale e come l’oppressione di genere assuma forme diverse a seconda dell’identità etnica, religiosa o razziale. Si tratta di prendere in considerazione la complessità di processi di politicizzazione concreti che possano vedere come protagoniste le donne di colore e migranti, che svolgono attualmente una parte consistente del lavoro di riproduzione sociale in Italia. Si tratta di avere l’umiltà di studiare e imparare a conoscere la storia specifica e le condizioni concrete di vita delle donne migranti e di colore, di riconoscerne le forme specifiche di resistenza e lotta, rivendicazioni, bisogni e desideri. Si tratta infine di tenere presente come la complessità di questi fenomeni sia strettamente connessa alle dinamiche del capitalismo italiano, al suo ruolo internazionale, alla sua riorganizzazione della sfera della riproduzione sociale, e di pensare, conseguentemente, la lotta femminista come lotta al tempo stesso di classe e anticapitalista.[1]


Enrico Proserpio


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[1] Cinzia Azzurra, prefazione al libro “Donne, razza e classe”, di Angela Davis, edizioni Alegre, 2018.

lunedì 1 giugno 2020

Tra capo e piedi: l'ospitalità erotica delle estremità


Fin da quando ero piccolo ho sempre provato una fortissima attrazione per i piedi maschili.
Alle elementari giocavo con un vicino di casa a leccarci i piedi a vicenda; passione, poi, estesa, alle medie, con altri amici di giochi… più o meno erotici e segreti. 
erotismo piedi


Premessa.
Nella nostra società, ovviamente non si può parlare apertamente di queste attrazioni. Il nostro non è certo un paese per persone libere e disinibite. Tutto avviene in gran segreto.
Nel 1998 la scrittrice e giornalista Susanna Schimperna scrisse un libretto dal titolo Feet. L’ossessione erotica per i piedi (Roma, Castelvecchi Editore) in cui raccoglieva testimonianze di questa passione diffusissima anche in Italia. Lo divorai letteralmente, alla ricerca di comprendere qualcosa circa l’origine e il senso di questa mia antica passione. Restai un po’ con la bocca asciutta. In verità mi ero fatto aspettative troppo elevate rispetto a un opuscolo che è, in verità, più una raccolta di dichiarazioni feticistiche che un saggio su questa pratica erotica.
Anni dopo, incontrai il libro Compagni d’amore dello psichiatra e psicoterapeuta Vittorio Lingiardi e vi trovai immediata sintonia e totale corrispondenza sotto diversi aspetti. Ciò che lì era descritto ed esplorato era proprio il mio mondo interiore e intimo. Ne restai affascinato.


Le ali ai piedi: ascesi e caduta.
Entrato in seminario prima e in convento poi, l’attrazione verso le estremità trasferita (o sublimata - scegliete voi l’aggettivo che preferite) al Cristo in croce. E io, Maddalena più o meno penitente, mi immaginavo lì sotto la croce ad adorare quei piedi trafitti.
Scrive a proposito Lingiardi: “La corrente simbolica che lega i piedi feriti all’ascensione… ci ricorda il pedaggio pagato dal Puer: Il prezzo della vista che penetra il Divino (…) è un marchio che segna il rapporto con questo mondo normale dei qui ed ora. Per poter volare si deve zoppicare (…) La sensibilità innata che ci consente di ricevere gli Dei… ci ferisce in continuazione e può ucciderci (Hillmann). Il pericolo è quello di negare il doppio aspetto dell’immagine interna, per cui l’innalzamento celeste richiede il piede ferito”. (Vittorio Lingiardi, Compagni d’amore, 1997, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 98s)
In effetti, in quel periodo, il passaggio adolescenziale e l’idealismo della mia prima gioventù mi portarono in una direzione estremamente angelica, che negava il radicamento con la terra: e “aggrappato” ai piedi del Cristo volavo verso il cielo. Ma, come Icaro, rischiavo ogni volta di piombare miseramente a terra per il calore del Sacro Fuoco Divino. E in effetti precipitavo (o almeno io mi sentivo cadere rovinosamente): in seminario di notte, mi infilavo sotto le coperte dei miei compagni a leccargli segretamente i piedi. E per me era un vero sfracellarmi a terra: dalle stelle (degli eterei cherubini asessuati) alle stalle (del mio carnale desiderio erotico)...

Mario Bonfanti

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