sabato 1 settembre 2018

"L'urlo della mandragora" di Erica Gazzoldi

Alack, alack, is it not like that I,
So early waking - what with loathsome smells,
And shrieks like mandrakes’ torn out of the earth,
That living mortals, hearing them, run mad -
O, if I wake, shall I not be distraught,
Environèd with all these hideous fears […]?

(William Shakespeare, Romeo and Juliet, IV.III, vv. 45-50)

“Ahimè, ahimè, non è forse probabile che io,
Svegliandomi così presto - fra quegli orrendi odori,
E urla, come quelle della mandragora strappata alla terra,
Tali che i mortali viventi, nell’udirle, impazziscono -
Oh, se mi sveglierò, non cadrò nella follia,
circondata da tutti quei tremendi orrori […]?”

[...]

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‘Ashtart finì con cura di spazzare le ultime ceneri dal piccolo braciere. Raccolse i mozziconi di cera e li sostituì con nuove candele. Alzò gli occhi sull’immagine in pietra che esse dovevano onorare: la Mata-Jana, la Madre Bifronte. “Madre”, benché uno dei due volti fosse maschile.

Più cose erano state rinnovate nella Casa delle Janai, nei secoli che erano passati. Alloggi in mattoni, anziché in incannicciati. Bracieri in metallo. Sculture e maioliche, dono delle partorienti, dei malati e delle famiglie che avevano assistito con le loro arti mediche. Ormai, le consorelle Janai non si limitavano più a ricavare antidolorifici dai papaveri. Avevano una biblioteca e un laboratorio alchemico in piena regola. Ma quell’antica immagine della Mata-Jana, sbozzata in un pezzo di roccia, non era mai stata toccata.
“Lei è un dono della Madre Bifronte” aveva detto la Maggiore, quando ‘Ashtart le era stata affidata dai familiari. Aveva raggiunto l’età riproduttiva ed era ormai chiaro, sia ai parenti che al villaggio, che quel suo dirsi ragazza non era il gioco o il capriccio di un bambino. Lei sapeva che il suo petto non sarebbe mai fiorito e che avrebbe sempre avuto, fra le gambe, quell’ingombrante e ipersensibile appendice. Però, almeno, la pubertà non l’aveva rovinata quanto aveva temuto. Aveva sviluppato membra flessuose, più che robuste; la voce era più bassa, rispetto a quella delle nate femmine, ma aveva una sua sensuale morbidezza. Peluria e barba le crescevano poco; in compenso, i capelli erano fiorenti e lunghi, con una bella tinta autunnale. Per quanto riguardava il nome, le era bastato mutarlo da ‘Ashtar ad ‘Ashtart.
“L’abbiamo cresciuto come si fa con gli altri maschi” aveva mormorato suo padre alla Jana Maggiore. “Sono sempre stato presente nella sua educazione. Ha fratelli maschi, amici maschi. È coraggioso e non fiata davanti alle fatiche. Non capiamo…”
“Una ragazza di ferro” aveva sorriso la sacerdotessa. Così, ‘Ashtart era stata accolta fra le Janai. Aveva sepolto il proprio corpo efebico nelle lunghe vesti nere, truccato le palpebre col nerofumo, indossato la collana d’ossa di coniglio per presentarsi ai capezzali ove era richiesta.
Le sue consorelle non erano arrivate alla Casa allo stesso modo. A dire il vero, di modi ce n’erano molti - ed erano cambiati nei secoli. Alcune facevano domanda d’ingresso da giovani. Altre erano già vedove e con figli cresciuti. Altre ancora fuggivano da violenze domestiche, o (si vociferava) dalle conseguenze di un delitto commesso. Naturalmente, non si creavano una famiglia, cosa che sarebbe stata onerosa per la sorellanza. Ma non avevano precisi divieti sessuali. Semplicemente, coloro che restavano incinte andavano a vivere col padre del bambino, tornavano dalla famiglia d’origine o concertavano altri modi per vivere quella nuova situazione. Non che ‘Ashtart si aspettasse di trovarcisi, beninteso.
Guardò di nuovo l’immagine della Mata-Jana. Maschio e femmina, Cielo e Terra, Vita e Morte, Luce e Ombra. Un solo essere, una sola realtà, nella differenza degli aspetti.
Ebbe voglia di baciare l’effigie, ma non osò. S’inchinò e, retrocedendo, uscì dal sacello.

[...]

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